Finalmente sono a Sighet, da mercoledì sera.
Arrivare al centro di accoglienza dall’aeroporto è stato difficile, stancante, tre ore e mezzo di macchina su strade dissestate, senza illuminazione, lande isolate e tipiche della Transilvania. Finalmente oggi c’è stato l’incontro coi bambini ed è difficile per me descrivere quanto sia stato bello. Bello. So dire solo questo e solitamente riesco a trovare più di un aggettivo per descrivere una cosa che mi fa stare bene, ma stare con loro un pomeriggio, giocare in cortile, tra altalena e scivoli e corse e dopo averli presi in braccio a due o tre per volta, fatti divertire come matti, essermi divertito come un matto, servito il pranzo, aiutati a fare i compiti, ricevuto baci e abbracci come mai mi era successo prima d’ora, visto i loro occhi spalancarsi alla vista dei miei tatuaggi sulle braccia e salutati (per oggi), ho provato cose di cui non ero più a conoscenza, mi hanno avvolto come un asciugamano caldo, me sconosciuto, e considerato loro fratello. Loro padre. Loro amico. Ecco che ho ricordato cosa significhi sentirsi amati.
Ma il pomeriggio, stanco morto, non più abituato a correre per ore, ruzzolando inciampando sull’erba come un bambino al loro pari, dopo aver colorato con loro orsi e conigli su fogli prestampati dalle suore, quando avrei voluto stendermi per riprendere fiato… siamo andati a portare dei regali in neonatologia ed ecco, lì, proprio lì, in una stanza ospitante due mamme in un ospedale lontanamente somigliante al nostro con solo tre piccoli appena nati, ecco, proprio lì, una mamma esausta dal parto di quella mattina mi permette di tenere in braccio suo figlio. Dopo un breve e inaspettto momento di panico ho ricordato tutte le volte che ho tenuto in braccio mia sorella e mia nipote, pronto a sostenergli la testa e ad accogliere il suo minuscolo corpicino tra le mie braccia, pronto a sentire il suo calore tra le mie mani. Avrei voluto lasciarlo? Macché, avrei voluto tenerlo in braccio per tutto il giorno, lasciarlo a sua madre solo per la poppata di turno, bearmi di tale assoluta magnificante pura innocenza. Avvicinarlo, magari, al mio petto, sentire il suo respiro sul mio collo e accostare la mia guancia alla sua, sentire i suoi primi capelli tra le mie dita. Avrei voluto essere padre, ecco. Lì, in quell’istante durato troppo poco, prima di riconsegnarlo a sua madre con la cura che si ha per un oggetto inestimabile, lì ho avvertito una profonda solitudine derivante dalla sua mancanza. Di lei. Che fa scompigliare i miei pensieri. Non so perché sia successo proprio in quel momento, o forse sì, ma è successo.
Sono le 00:53 qui, un’ora avanti rispetto all’Italia. Probabilmente non dormirò, mi rigirerò continuamente nel letto insonne per ore ed esausto tornerò dai quei bambini, domani. E mi sentirò di nuovo solo, e a tratti anche miseramente triste, senza lei, che nemmeno lo sa, che non rivedrò mai più, ma almeno potrò riabbracciare loro e sentirli un po’ anche figli miei.

Miracle 

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